Il cervello neurodivergente sotto pressione
Nei funzionamenti neurodivergenti (autismo, ADHD, DSA, alta sensibilità, ecc.) il sistema nervoso vive il mondo con una soglia di attivazione più rapida e più intensa.
Quando la situazione implica:
- attenzione concentrata su di sé,
- giudizio esterno,
- aspettativa di performance,
il cervello interpreta tutto come un “pericolo”.
E lo schema è sempre lo stesso:
– amigdala in allerta → adrenalina → cortisolo → blocco cognitivo.
In quel momento la mente non è “vuota”: è sovraccarica.
Il linguaggio, la memoria di lavoro e l’accesso alle informazioni si sospendono per qualche minuto, finché l’allarme interno non rientra.
Non è debolezza, è protezione
Il blackout cognitivo è una risposta di difesa, non un segno di fragilità.
Il cervello, sommerso da stimoli e adrenalina, sceglie di bloccare le funzioni “non essenziali” (parola, memoria, logica) per concentrarsi sulla sopravvivenza.
E chi è neurodivergente lo fa con una velocità maggiore, perché vive ogni stimolo in alta definizione.
Micro-aiuti per tornare online
Quando succede, serve riportare il corpo nel presente.
Ecco alcune strategie semplici ma efficaci:
- Respira a ritmo controllato: inspira 4 secondi, trattieni 2, espira 6.
- Radicati fisicamente: senti i piedi sul pavimento, il contatto con la sedia, la temperatura dell’aria.
- Trova un punto visivo neutro: un dettaglio fisso su cui ancorare lo sguardo mentre le parole tornano.
- Concediti il tempo: dire “mi serve solo un momento” non è segno di debolezza, ma di autocontrollo.
Dopo il blocco
Quando la situazione finisce, il cervello deve defluire.
Serve silenzio, decompressione, movimento.
Camminare, respirare aria fresca, o ascoltare musica a bassa intensità.
Il sistema nervoso si regola solo se gli concediamo spazio.
Il ruolo dello sguardo esterno
Chi assiste a un blackout cognitivo spesso non capisce cosa sta succedendo.
Può pensare che la persona si stia “bloccando per ansia” o che “non sappia cosa dire”.
In realtà, la cosa peggiore che si possa fare in quel momento è mettere fretta, alzare la voce, o insistere con domande.
Serve invece:
- pazienza e silenzio,
- tono di voce neutro e basso,
- e, se possibile, riconoscere la difficoltà senza giudicarla (basta dire: “Va bene, prenditi un momento”).
Questo trasforma un episodio traumatico in un momento di sicurezza.
La differenza tra blocco e ripresa, per una persona neurodivergente, è quasi sempre nel contesto che la circonda.
Perché parlarne
Perché troppi adulti neurodivergenti cresciuti nel silenzio si convincono di “non essere all’altezza” quando, in realtà, il loro cervello sta solo proteggendoli da un eccesso di stimoli.
Raccontarlo serve a normalizzare queste esperienze, a riconoscerle, e a sapere che — come hai dimostrato tu — ci si può sempre riprendere, basta qualche minuto e un po’ di consapevolezza.
Marie Helene Benedetti
Presidente dell’associazione Asperger Abruzzo







