Il termine hikikomori: elegante, ma vuoto
“Hikikomori” suona bene.
Ha un’aura esotica, quasi affascinante.
Sembra dire tutto e invece non dice nulla. Non è una diagnosi, non è un codice, non impone nulla al sistema sanitario. Ma soprattutto: non cura nessuno.
Dietro ogni ragazzo o ragazza che si ritira dalla vita sociale non c’è un mistero giapponese.
C’è spesso un disturbo d’ansia, una depressione maggiore, una fobia sociale paralizzante, oppure una forma autistica non riconosciuta.
C’è sofferenza psichica. Vera. Concreta.
Eppure, anziché chiamarla con il suo nome clinico, la infiliamo in una parola che neutralizza tutto.
Se non ha una diagnosi, non ha un codice.
Se non ha un codice, non ha una presa in carico.
Se non ha una presa in carico, è un problema che non riguarda nessuno.
Chiamarlo hikikomori significa assolvere il sistema: la scuola che non ha visto, la sanità che non ha indagato, le istituzioni che non hanno fatto nulla.
È una scorciatoia perfetta.
Hikikomori: da persona da aiutare a caso sociale
Così si scarica la responsabilità su famiglie allo stremo e su ragazzi che vengono lasciati a spegnersi lentamente, nella solitudine delle loro stanze, senza neanche più il diritto di essere considerati pazienti.
La tragedia è che così facendo il ragazzo smette di essere “una persona da aiutare” e diventa un fenomeno da osservare.
Un caso sociale. Una stranezza.
E mentre gli adulti si interrogano e scrivono saggi sull’isolamento, nessuno si assume la responsabilità di intervenire davvero.
Quando la diagnosi fa più paura di un termine vuoto
C’è anche un altro tipo di responsabilità, più silenziosa ma altrettanto devastante: quella di alcune famiglie.
Famiglie che hanno ricevuto una diagnosi — spesso corretta — di autismo, fobia sociale, ansia grave.
Ma che l’hanno chiusa in un cassetto.
Perché fa paura.
Perché la parola “autismo” fa tremare più di “strega”.
Perché “disturbo d’ansia” suona come un difetto, un fallimento.
E allora il medico che ha avuto il coraggio di dirlo viene etichettato come “un incompetente”, “uno che non conosce mio figlio”.
Ma non è ignoranza.
È dolore.
È lo strazio di chi non ce la fa ad accettare che la realtà sia diversa da quella immaginata.
E così si sceglie il rifugio: hikikomori.
È più vago, più morbido, più accettabile nei discorsi tra parenti, a scuola, davanti agli amici.
Non impone percorsi, non obbliga a guardarsi dentro, non pretende richieste di invalidità, certificazioni o relazioni da portare in commissione.
Ma questa fuga ha un costo altissimo.
Quando neghi la diagnosi, rinunci al diritto di essere aiutato.
E tuo figlio, da soggetto fragile, diventa invisibile.
Hikikomori nei protocolli ministeriali: un errore pericoloso
Il colpo di grazia arriva dritto dallo Stato.
Mentre famiglie e ragazzi affondano, il Ministero della Salute — con il supporto dell’UNICEF e dell’Istruzione — annuncia “protocolli per contrastare l’hikikomori”.
Sì, lo chiama proprio così: hikikomori.
Una parola senza diagnosi, senza codice, senza obblighi di cura.
E allora diciamolo forte:
non si può costruire un piano sanitario su un’etichetta che non esiste.
Non servono protocolli creativi, servono diagnosi cliniche.
Servono invii in neuropsichiatria, valutazioni accurate, interventi mirati.
Non si contrasta un problema se prima non lo si riconosce.
E finché continuiamo a parlare di hikikomori invece che di diagnosi scientifiche, questi ragazzi non avranno mai accesso all’intervento.
È facile costruire tavoli, firmare protocolli, fare convegni.
È molto più difficile prendersi la responsabilità clinica di una diagnosi che obbliga il sistema ad intervenire.
Se cambi nome, cambia destino
È qui che dobbiamo agire.
Dobbiamo spaccare questa parola, distruggerla con precisione chirurgica, e restituire dignità clinica a ciò che sta sotto.
Perché solo con un nome corretto, il sistema è obbligato a muoversi.
Se lo chiami autismo, hai diritto a una valutazione e a un supporto.
Se lo chiami disturbo d’ansia, hai diritto a una cura.
Se lo chiami ritiro sociale generico, hai diritto al nulla.
Ecco perché hikikomori non è una diagnosi. È un alibi.
Un alibi per chi dovrebbe vedere, per chi dovrebbe agire, per chi dovrebbe aiutare.
Ma non lo fa.
Basta con la retorica dei ragazzi che “scelgono di isolarsi”.
Non è una scelta: è un grido, spesso non riconosciuto.
E se vogliamo davvero ascoltarlo, dobbiamo smetterla di romanticizzare il silenzio.
Da dove nasce davvero la parola hikikomori
Il termine hikikomori nasce in Giappone negli anni ’90, coniato dallo psichiatra Tamaki Saitō per descrivere un fenomeno che il paese non riusciva più a ignorare: migliaia di giovani che si chiudevano in casa per mesi, a volte per anni, rifiutando ogni contatto con la società.
Ma attenzione: non era una diagnosi medica.
Era una definizione sociologica per descrivere un comportamento estremo in un contesto culturale dove chiedere aiuto è quasi impossibile.
In Giappone, una diagnosi psichiatrica è un’onta.
Espone l’intera famiglia al disonore, all’emarginazione, alla vergogna.
Per questo molte famiglie preferiscono evitare del tutto lo sguardo clinico e accettano, come compromesso, questa parola che non cura, ma almeno protegge dalle etichette più stigmatizzanti.
È un problema.
E lì è riconosciuto come tale: ci sono centri dedicati, misure sociali, dibattiti.
Il termine hikikomori non è usato per evitare la diagnosi, ma per avvicinarsi lentamente a chi la rifiuta, in un contesto culturale che non tollera la fragilità.
Ma in Italia non abbiamo quel contesto. E stiamo facendo peggio.
In Italia non c’è il concetto di disonore familiare.
Non c’è una cultura della vergogna come in Giappone.
Nessuno viene allontanato perché riceve una diagnosi di depressione o autismo.
Eppure stiamo seguendo la stessa traiettoria.
Solo che da noi non c’è un motivo culturale: c’è una scappatoia.
Usiamo la parola hikikomori per non dire “autismo”, per non dire “disturbo d’ansia”, per non dire “prendiamoci carico di questo ragazzo”.
Facciamo passare un comportamento grave per una fase, un’identità, una scelta.
Ma in realtà è una regressione.
Non è comprensibile. Non è giustificabile.
È un modo per non attivare percorsi sanitari, per non chiamare le cose con il loro nome, per lavarsi la coscienza dicendo che “non si può fare niente”.
In Giappone hikikomori è il sintomo di una cultura che fatica ad accettare la sofferenza.
In Italia è la scusa perfetta per non fare niente.
Marie Helene Benedetti
Presidente dell’associazione Asperger Abruzzo