La direttrice Emanuela Bernardis e la coordinatrice Marilena Cescon sono finite in carcere. Altri quattro operatori agli arresti domiciliari. Undici persone con braccialetto elettronico o obbligo di firma.
Non per un errore. Non per una disattenzione. Ma per anni di violenze sistematiche, consumate nel silenzio di chi sapeva e non ha voluto vedere.
Il paradosso del “Per Mano”
“Per Mano”.
Un nome che oggi suona come una bestemmia.
Li prendevano per mano, sì.
Per legarli.
Per spingerli in stanze chiuse.
Per imboccarli a forza o lasciarli senza cibo.
Le indagini raccontano di contenzioni fisiche ingiustificate, pasti ridotti come punizione, farmaci sedativi usati per farli stare zitti, umiliazioni quotidiane.
Persone lasciate per ore in una “room relax” — ironia tragica — senza cambio dei dispositivi sanitari, senza assistenza, senza dignità.
E dietro, la solita frase pronta a giustificare tutto: “Sono casi difficili, non si capisce cosa vogliono”.
No.
Il problema non è capire loro. È capire noi, e fino a che punto siamo disposti a voltare lo sguardo.
Un’indagine che non nasce oggi
Non è la prima volta che questa struttura finisce sotto accusa.
Già nel primo procedimento — quello che porterà a processo dodici persone il prossimo 16 dicembre — si parlava di un clima di sopraffazione, degrado e indifferenza.
Le accuse andavano dal cibo avariato alle contenzioni inutili, fino al mancato intervento davanti a episodi di palese maltrattamento.
La seconda inchiesta, appena esplosa, scava ancora più a fondo.
E quello che emerge fa male da leggere.
Perché dentro quelle mura non c’erano solo “ospiti con disturbi dello spettro autistico”.
C’erano persone.
Con un corpo, un nome, una storia.
Persone che si fidavano.
Persone che non potevano difendersi.
E mentre qualcuno gridava dentro, fuori si compilavano moduli, si organizzavano turni, si mandavano relazioni pulite e ordinate.
Tutto regolare.
Tutto “a norma”.
Il silenzio che uccide due volte
In questi casi, la crudeltà non è solo nei gesti.
È nella complicità del silenzio.
In chi ha visto e non ha denunciato.
In chi ha scelto la tranquillità di una firma sul registro piuttosto che lo scompiglio di una verità scomoda.
In chi ha continuato a lavorare lì fingendo che fosse “tutto sotto controllo”.
E poi ci sono i genitori.
Le famiglie.
Quelle che affidano il proprio figlio a una struttura così, pensando che troverà sollievo, accoglienza, comprensione.
E invece scoprono che il figlio è stato legato, affamato, trattato come un peso.
Provate a immaginarlo.
Solo per un attimo.
Provate a immaginare che quel figlio sia il vostro.
Giustizia non basta: serve verità
Il processo servirà a stabilire chi ha fatto cosa, chi sapeva, chi ha taciuto.
Ma la giustizia non basta.
Perché in Italia, ogni anno, casi simili vengono archiviati come “situazioni complesse”, “episodi isolati”, “malintesi professionali”.
Il linguaggio cambia, la sostanza no.
Dietro ogni parola neutra, c’è una vita calpestata.
E allora serve qualcosa di più grande.
Serve una rivoluzione etica, una presa di coscienza collettiva.
Serve riconoscere che l’autismo non è un problema da contenere ma una condizione da comprendere, che richiede formazione, umanità, tempo, rispetto.
Non catene.
Perché ogni volta che qualcuno viene legato, non è solo il suo corpo a essere immobilizzato.
È la nostra società che smette di respirare.
Marie Helene Benedetti
Presidente dell’associazione Asperger Abruzzo







